martedì 28 dicembre 2010

"Io clandestino, non posso dire chi mi rapina"



il racconto del nigeriano Kennedy: "Io accoltellato dalla mafia nera, ma la legge non mi difende".

28/12/2010

foto Gianni Izzo

Vincenzo Ammaliato.
«Mi sento un bersaglio qui in Italia, un bersaglio al quale chiunque può mirare e sparare senza incorrere in alcuna conseguenza». È amaro lo sfogo di uno dei tanti immigrati africani che popolano la Domiziana, e fa parte di un racconto che se fosse confermato rappresenterebbe una circostanza raccapricciante. Lui, seduto nella cucina dell’abitazione che divide con altri cinque connazionali, a Castel Volturno, sostiene di essere scappato dal suo Paese d’origine, la Nigeria, perché perseguitato politico e di trovarsi in Italia da due anni; il permesso di soggiorno non lo ha ancora ottenuto, e oramai, addirittura, dispera di averlo. Intanto, cerca lavoro tutti i giorni sulle rotonde del Doppio Senso e dice di chiamarsi come il presidente degli Stati Uniti d’America assassinato a Dallas, Kennedy. Due mesi fa, secondo il suo racconto, sarebbe rimasto vittima di un’aggressione a scopo di rapina, e le conseguenze di quell’episodio sarebbero ancora visibili nelle due cicatrici che porta sul corpo, una sopra l’occhio sinistro, l’altra in petto: due tagli provocati quasi certamente da una lama di un coltello. «Da quando sono in Italia, racconta Kennedy, ho incontrato e frequento molte persone buone. Ma in giro c’è anche gente cattiva, ci sono quelli che voi chiamate “camorristi”, che incutono tanto terrore e che sono pericolosi. Ebbene, per non avere alcun tipo di problema da loro ho imparato a starne alla larga; ma dai mafiosi del mio Paese, dalla cosiddetta “Mafia Nera”, è difficile stare lontani senza l’aiuto delle forze dell’ordine; e i clandestini purtroppo, qui, non sono considerati, né ascoltati da nessuno. La Mafia Nera a Castel Volturno è molto potente e aggressiva; è ramificata e conta molti uomini che fanno ciò che vogliono, e quando hanno bisogno di denaro velocemente non esitano a rapinare i propri connazionali; soprattutto se clandestini, perché sanno bene che difficilmente denunceremo l’accaduto. E chi si oppone alle rapine o ai taglieggiamenti viene picchiato barbaramente, proprio come è successo a me due mesi fa. Volevano i pochi soldi che conservavo nel portafogli e il telefono cellulare; mi sono opposto e mi hanno picchiato e pugnalato. Dopo essere stato medicato alla clinica Pinetagrande, ho cercato di denunciare l’episodio alle forze dell’ordine, ma non mi hanno voluto ascoltare a causa della mia situazione giuridica, perché sono un fantasma». Da quando ha subito l’aggressione e non è riuscito a denunciarla, Kennedy dice di vivere nel terrore e di uscire di casa solo per andare a cercare il lavoro, un lavoro a giornata e a nero, ovviamente. Eppure, negli ultimi anni sono numerose le operazioni delle forze dell’ordine che coordinate dalla procura antimafia di Napoli e dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere hanno permesso di arrestare decine di affiliati alla mafia nigeriana che opera a Castel Volturno, i cosiddetti «Rapaci». Ciononostante, l’impressione che si ha percorrendo la via Domiziana è che le organizzazioni malavitose africane riescano ancora a controllare il territorio e gestire con relativa tranquillità i propri traffici illeciti. Lo sfruttamento della prostituzione, ad esempio, se pur diminuito, continua a mettere sui marciapiedi dell’antica arteria romana decine di ragazze ogni giorno. Così come lo spaccio di sostanze stupefacenti sembra non diminuire nonostante gli arresti eseguiti da carabinieri e polizia sul territorio siano quasi quotidiani. «E per questo, dice, Kennedy, che appena finito il lavoro, resto confinato in queste quattro mura. Ho paura a frequentare chiunque, ad andare a bere una bibita con gli amici. Perché fuori da questa casa ci sono dei bianchi e dei neri molto cattivi e nessuno disposto a difendere chi come me ha la sola colpa di non avere un regolare permesso di soggiorno». © RIPRODUZIONE RISERVATA

mercoledì 22 dicembre 2010

Lite in famiglia: moglie e figlio lo denunciano, lui si toglie la vita

Vincenzo Ammaliato
22/12/2010
Solitamente i suicidi sono definiti come il «male oscuro»: quella, spesso, imperscrutabile piega della mente difficile da decifrare, che spinge l’essere umano ad andare contro il proprio istinto di sopravvivenza e togliersi la vita. Ma nel caso di Salvatore Silvestri, cinquantaseienne di Castelvolturno, probabilmente alla base dell’insano gesto c’è anche dell’altro. L’uomo si è impiccato ieri pomeriggio nella veranda della propria abitazione mentre si trovava da solo in casa; ha staccato una corda utilizzata per stendere il bucato, l’ha legata ad un asse di ferro al soffitto, è salito su una sedia e subito dopo aver fatto il cappio al collo si è lasciato cadere nel vuoto. A notare quel corpo privo di vita pendente dal balcone è stato un suo vicino di casa, in via Fiume Desio, a Destra Volturno. Immediata è stata la chiamata ai soccorsi, così come pure l’arrivo di un’ambulanza del 118 di Mondragone. Ma per il cinquantaseienne al loro arrivo già non c'era più nulla da fare. I sanitari non hanno potuto fare altro che costatare il suo decesso. Poco dopo il corpo è stato direttamente trasferito all’istituto di medicina legale di Caserta. Sul posto sono giunti anche i carabinieri della locale stazione. Le forze dell'ordine hanno setacciato l’abitazione dell’uomo, ma non hanno trovato nulla che potesse spiegare il drammatico gesto: nessun «ultimo bigliettino», nessuna traccia utile. Eppure, in quella casa il giorno prima era successo qualcosa di violento. La moglie e il figlio ventenne del suicida si erano, infatti, recati lunedì sera alla stazione dei carabinieri di via Cavour, e qui avevano presentato una regolare denuncia per maltrattamenti contro il proprio congiunto. Poco prima di cena, stando alla loro dichiarazione, in casa Silvestri era scoppiata una lite talmente furiosa fra il capofamiglia, la moglie e il figlio, che questi ultimi due erano dovuti ricorrere alle cure dei medici del pronto soccorso della clinica Pineta Grande. Il comandante della stazione, il maresciallo Antonio Izzo, aveva dato mandato ai suoi uomini di preparare in giornata la contestazione di reato da consegnare a Salvatore Silvestri. I militari dell’arma gliel’avrebbero dovuta contestare questa mattina, ma non hanno fatto in tempo. Probabilmente lo stesso malessere che ha spinto l’uomo a infierire violentemente contro la moglie e il figlio, ieri pomeriggio lo ha riassalito, e mentre i parenti si trovavano a casa di una loro parente che vive poco distante, questa volta ha rivolto verso sé la violenza e si è tolto la vita. © RIPRODUZIONE RISERVATA

sabato 18 dicembre 2010

Dalla MIseria alla strada, storie di ragazze perseguitate

Il blitz della polizia sul litorale svela retroscena criminali ma anche tante vicende umane



18/12/2010

Vincenzo Ammaliato.
Quando si parla di immigrati nigeriani in Italia il riferimento logistico è sempre lo stesso: Castelvolturno. Ed è nel piccolo centro domiziano che vivevano e operavano alcune delle sette le donne arrestate ieri dalla squadra mobile dei Napoli nell’ambito dell’operazione coordinata dal tribunale partenopeo volta a stroncare una tratta di essere umani; nello specifico, di giovani donne da avviare alla prostituzione di strada, da posizionare sui marciapiedi della via Domiziana. È qui, sulla vecchia arteria romana, così come stanno raccontando negli ultimi anni numerose inchiesta della procura antimafia di Napoli, che da oltre due decenni la cosiddetta «Mafia nigeriana» ha trovato terreno fertile per consolidare e far crescere i suoi business criminali. Quello dello sfruttamento della prostituzione è un settore gestito interamente al femminile. Sono chiamate «maman» le nigeriane protettrici delle lucciole. Solitamente, ogni «maman» ha un gruppo di sei-dieci ragazze che avvia alla prostituzione. Sono tutte proprie connazionali. Si tratta di giovani donne dai diciotto ai venticinque anni, pagate ai trafficanti d'esseri umani ognuna dieci-quindicimila euro, e che vengono fatte arrivare in Italia clandestinamente. Appena giunte nel nostro Paese, le protettrici le sottraggono i passaporti, che saranno restituiti solo dopo aver pagato un riscatto di circa trentamila euro. Ovviamente, l’unico modo per procurarsi questa ingente somma di denaro per loro è quello di vendere il proprio corpo. Le ragazze per riavere i documenti ed essere libere sono costrette a lavorare tutti i giorni a qualsiasi ora del giorno e della notte. E se durante il percorso arriva una gravidanza indesiderata, le «maman» si preoccupano anche di organizzare gli aborti clandestini. Ulteriori sistemi di coercizione sono quelli dei riti wodoo, cui sono sottoposte le ragazze appena giunte in Italia e che temono in maniera particolare, e le minacce di morte ai familiari rimasti in Africa. Durante questo periodo le lucciole sono letteralmente segregate in abitazioni lager nei mille viali della via Domiziana. E anche per queste dimore devono pagare una somma di denaro ai propri carnefici, sotto forma vitto e alloggio pari a circa trecento euro al mese. Il debito dei trentamila euro, invece, solitamente è pagato per intero dopo circa due anni di lavoro. A questo punto, le organizzazioni malavitose che le hanno sfruttate e sfibrate sia fisicamente sia psicologicamente lasciano libere le ragazze. Non sono più costrette a lavorare con una protettrice. Potrebbero teoricamente anche tornare nel loro Paese d'origine. Ma per qualsiasi emigrante, è particolarmente umiliante e frustante tornare in patria più poveri di quando si è partiti. E allora, quasi tutte continuno a fare l'unica cosa che hanno imparato qui in Italia, le prostitute. E come in un film che si ripete all'infinito con lo stesso inizio e lo stesso finale, la vittima diventa carnefice, comprando un gruppo di giovani ragazze e avviandole al lavoro di strada. Anche alcune delle sette donne sfruttatrici arrestate lo scorso giorno hanno iniziato il loro percorso in Italia come semplici lucciole. Per loro adesso sono scattate le manette. Mentre per altre centinaia di connazionali, l'inferno continua tutti i giorni lungo le strade italiane.

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venerdì 10 dicembre 2010

Ex testimone di giustizia: «Sono minacciata hanno avvelenato il mio cane, ora ho paura»

10/12/2010

Vincenzo Ammaliato
La morte di un cane nel cortile di un’abitazione è un evento triste per qualsiasi padrone, ma che può essere riconducibile a numerose patologie non prevedibili, seppure il quadrupede è di giovane età. Però, se il suo padrone è un testimone di giustizia che una volta completato il percorso giudiziario che lo ha portato a fare la «cosa giusta» ha deciso di tornare a vivere nel suo paese, l'episodio può nascondere una ragione dagli aspetti a dir poco inquietanti. E se poi, proprio mentre il padrone del meticcio sta piangendo per la morte del suo fidato amico, nei paraggi dell’abitazione si trova a passare un pregiudicato affiliato al clan camorristico della zona che ridendosela dice ad alta voce: «devi fare la stessa fine del tuo cane», allora la circostanza deve assume necessariamente aspetti di natura giudiziari. C. P.. con la sua scelta di comportarsi da cittadino esemplare, nel 2004 fece condannare all’ergastolo il killer di un omicidio a Mondragone. Per quattro anni (il periodo del processo) la donna ha vissuto protetta dallo Stato, spostandosi da un albergo all’altro lungo tutta l’Italia. Dal 2008, poi, ha deciso di tornare a vivere nel suo paese, a Mondragone. Ha deciso di tornare nella cittadina domiziana per riprendere la sua vita di sempre nella sua terra. Questa era la sua semplice e straordinaria speranza. Ma il ritorno è stato tutto in salita. La donna non è riuscita a recuperare il suo vecchio lavoro di collaboratrice domestica; gli amici di sempre sono come spariti; lo Stato che per quattro anni l’ha protetta e blindata con l’aiuto delle forze dell’ordine appare impegnato in altre e nuove emergenze. E così, la donna, si è trovata sola, isolata dalla tutti e costretta a rifarsi una vita senza più avere alcun punto di riferimento. Ma evidentemente, c’è chi non si è dimenticata di lei: la malavita, ad esempio. C.P., infatti, teme che il suo cane non sia morto per cause naturali, ma che sia stato invece avvelenato da uomini del clan che in un modo o nell’altro le vogliono far pagare la sua scelta di aiutare lo Stato nel far condannare uno spietato killer. Subito dopo la morte del meticcio, C. P. ha presentato una formale denuncia alla compagnia dei carabinieri. I militari dell’arma l’hanno ascoltata con attenzione e le hanno garantito che seguiranno scrupolosamente la vicenda. Le forze dell’ordine stanno cercando di appurare se l’episodio sia da collegare alla testimonianza contro il killer o legato a vicende private. Intanto, l’ex testimone di giustizia è tornata nella sua abitazione da sola: sola come prima e senza più la compagnia del suo amico fidato a quattro zampe. © RIPRODUZIONE RISERVATA