venerdì 12 dicembre 2008

"Il riscatto? dissero così anche per l'abbattimento delle torri"


VINCENZO AMMALIATO «La strage di Castelvolturno dello scorso settembre, costata la vita ai sei africani, non ha fatto altro che scoperchiare un putrido pentolone nel quale chi vive a Castelvolturno è immerso dentro da anni e spesso non se ne accorge. Subito dopo si è scatenata una prevedibile attenzione mediatica sul territorio, un’attenzione senza precedenti. E molti hanno cercato di sfruttare il momento per dare in pasto a un popolo bramoso di risposte gli interventi più semplici e immediati possibili. Ma una problematica tanto complessa come quella che vive il territorio domizio da anni, va affrontata in maniera completamente diversa». La riflessione è di Antonio Casale, il direttore del centro Fernandes, che sceglie il giorno dei tanto attesi funerali dei sei ghanesi vittime della mattanza della sartoria (cerimonia peraltro, avvenuta senza salme e con uno strascico di proteste), per rompere il silenzio che si era imposto durante le recenti polemiche sorte a seguito della richiesta dei politici locali del centrodestra di chiudere la struttura vescovile di Castelvolturno da lui gestita perché ritenuta responsabile delle presenze di clandestini nella zona. E va giù duro. «Nelle ultime settimane - sottolinea Casale - è stato posto in essere il tentativo di trasformare il Fernandes in un simbolo di degrado, responsabile dell’immigrazione selvaggia nel paese. Così come è stato anche per l’ormai famoso «American palace». La richiesta di chiusura e di abbattimento di queste due strutture rischia di diventare un nuovo simbolo - aggiunge - con la funzione catartica di distrarre l’attenzione dai veri problemi del territorio. Il pericoloso tentativo messo in atto, in buona o cattiva fede, è insomma quello di voler far credere alla gente che eliminati quelli che vengono identificati come il «bubbone infetto», la malattia scompare. Purtroppo si sbagliano, non è così. Ma il bubbone è, e resta, solo il sintomo più evidente di una malattia molto più grave e profonda che se non si combatte in radice va in metastasi». I fatti capitati in zona negli ultimi tre mesi hanno segnato profondamente la gente di Castelvolturno; fra questi, ovviamente, anche il direttore della struttura vescovile di Castelvolturno, porta i segni di tre mesi di forti tensioni. Ha cercato, per settimane, di restare fuori dalle polemiche e dalle schermaglie politiche che pure hanno finito per avvelenare un clima già pesante in una città in cui sui muri sono comparse scritte e minacce di morte contro il sindaco Nuzzo, ma anche frasi di incitamento ai killer della camorra. Nelle sue parole si coglie anche un velo di rassegnazione. «Non molti anni fa - sottolinea Casale - furono abbattute, suonando la grancassa, le famose torri del Villaggio Coppola, un simbolo, ormai molto logoro, dell’abusivismo imperante da un ventennio sul territorio. Si disse che era iniziato il riscatto. A distanza di pochi anni - aggiunge - la città è precipitata nel periodo più buio della sua storia dimostrando come il sacrificio dei «capri espiatori» individuati al momento, di biblica memoria, non produce nessun risultato se non quello di soddisfare intime pulsioni di vendetta, foriere di nuovi e più pericolosi mali». Ma per far rinascere Castelvolturno, quindi cosa serve? Per Antonio Casale non ci sono dubbi: «Non occorrono eroi, martiri o santi. Occorre solo gente onesta che ama il prossimo suo come se stesso».

Strage, ultimo saluto ai sei ghanesi uccisi


VINCENZO AMMALIATO Saranno il vescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, e l'Imam della moschea di San Marcellino, Nasser Hidouri, a celebrare questa mattina il rito religioso per i sei immigrati ghanesi brutalmente assassinati lo scorso 18 settembre al chilometro 43 della via Domiziana. Esattamente due mesi e mezzo dopo il giorno più nero della storia di Castelvolturno, alle 10, torneranno dall'obitorio di Caserta le sei salme vittime della camorra. Ad attenderle, a meno di un chilometro dal luogo della strage, in via Lungolago a Ischitella, ci saranno il fratello di uno dei defunti e i loro tanti amici. È attesa a Castelvolturno anche la presenza dell'assessore regionale agli affari sociali Alfonsina De Felice, che dopo la strage stanziò la cifra di cinquantamila euro necessaria a coprire le spese dei funerali. La cerimonia interreligiosa inizierà alle 11 e durerà circa un ora. In un primo momento si era pensato di celebrare dei funerali separati: uno cristiano, per le due vittime che professavano la fede pentecostale e il rito musulmano per le altre quattro. È stata, poi, la mediazione dei dirigenti del Comune di Castelvolturno con i parenti dei defunti e i religiosi a far propendere per il rito unico. Subito dopo la preghiera, l'impresa di pompe funebri incaricata del trasferimento in Ghana delle salme provvederà al trasporto dei feretri direttamente all’aeroporto di Roma. Ed è su questo punto che si sono spente le ultime speranze degli amici delle vittime. Gli immigrati della Domiziana, infatti, sin dal giorno dopo la strage, avevano palesato il desiderio di un corteo funebre lungo le vie del paese costiero. Ma la prefettura ha ribadito ieri sera durante una riunione con il sindaco di Castelvolturno Francesco Nuzzo, che per motivi d’ordine pubblico è preferibile che il corteo non si faccia. Cosa resterà della strage della sartoria nella mente della gente di Castelvolturno dopo questi funerali? Il negozio del chilometro 43 è chiuso da quel triste giorno. Adagiati alla sua saracinesca sono rimasti solo dei fiori appassiti. Questi sembrano essere gli unici segnali della mattanza. Il territorio già da fine settembre è completamente militarizzato; ma dopo qualche giorno di «assestamento» ha riacquistato il suo aspetto di sempre. Anche le prostitute di colore sono ritornate a esercitare la loro professione sui marciapiedi della Domiziana a tutte le ore del giorno e della notte come prima del 18 settembre. L'immigrazione clandestina e il mercato della droga, nonostante il blitz di carabinieri e polizia all'ormai famoso American palace, sembrano non essere stati neanche scalfiti. «Nonostante tutto - ha detto Bismark, un immigrato tanzaniano, amico delle sei vittime - a me Castelvolturno continua a piacere. E resterò a vivere qui con la mia famiglia».

monta la pprotesta contro il fernandes a Castelvolturno

17.11.08 Castel Volturno - «Non ritengo assolutamente di essere razzista, né di perseguire azioni di carattere xenofobo, ma sono un semplice portavoce di gran parte dei residenti di Castelvolturno». Respinge con forza la parola “razzismo” Antonio Scalzone, il capogruppo dei consiglieri di opposizione del Comune di Castelvolturno, promotore della richiesta di chiusura o conversione del centro per immigrati Fernandes che negli ultimi giorni ha sollevato non pochi dibattiti a Castelvolturno. La sua, spiega, è «una battaglia per la cittadinanza», tanto che otto giorni fa ha iniziato «a raccogliere firme raggiungendo già quota cinquecento sottoscrizioni». «Fra i firmatari - aggiunge Antonio Scalzone - molti sono persone che hanno idee politiche diverse da noi. E per domenica prossima supereremo le mille firme». Il capogruppo ha anche fatto sapere di aver avuto, ieri, un cordiale colloquio telefonico con il vescovo di Capua Bruno Schettino. «Ho confermato a sua eccellenza - ha detto Scalzone - che la mia non è una battaglia personale contro la sua Curia. A Castelvolturno arrivano tutti i clandestini che sbarcano a Lampedusa, o a Crotone e Ragusa; in quei luoghi vengono immediatamente informati, non si sa bene da chi, che sul litorale domizio c'è una struttura della Caritas che può garantire loro assistenza. Molti di questi, poi - continua l’ex sindaco - non riescono a entrare nel Fernandes perché sono troppi ma restano ugualmente sul territorio facendolo morire». Il centro è nato però nel 1996 quando l’immigrazione clandestina era già una piaga a Castelvolturno. «La nostra struttura - ha sottolineato il direttore Antonio Casale - è stata pensata proprio per venire incontro a un grosso disagio che c'era sul territorio. Gli immigrati arrivavano e arrivano ancora oggi a Castelvolturno perché ci sono numerose comunità di extracomunitari, e il loro tam-tam è molto forte». Padre Giorgio Poletti, il missionario da sempre al fianco degli immigrati del litorale, ipotizza delle manovre destabilizzatrici dietro la «vicenda Fernandes». «Ho l'impressione - ha detto il religioso - che si stia ancora una volta utilizzando lo spauracchio del centro per immigrati al solo fine di montare in paese la rabbia nei confronti dei clandestini. Questo per indirizzare i controlli delle forze dell'ordine esclusivamente nei confronti degli extracomunitari».

La domitiana, dove non c'è strada non c'è civiltà


Al Paese che il 19 settembre scorso si è svegliato con le immagini di una delle stragi più cruente della sua storia criminale, quella della sartoria di Castelvolturno con i suoi sei morti ghanesi, sono arrivate, forse per la prima volta, in quantità le «istantanee» del degrado del litorale. Poi le immagini della devastazione della rivolta degli immigrati. Immagini, spezzoni, video spesso girati frettolosamente: il Paese ha visto, si è indignato e ha archiviato appena possibile. Della Domiziana è arrivato quanto bastava a reggere per qualche giorno un grave fatto di cronaca. Senza scomodare semiologi e filosofi, funziona così la società mediatica. Qualche immagine, una veloce sintesi, un giudizio e via, si passa alla pratica successiva.

Chi non ha avuto fretta è un giovane regista, Romano Montesarchio, che ha appena ultimato un documentario di 45' frutto di un lavoro cominciato nel 2003 con l'abbattimento delle torri del villaggio Coppola, seguito da osservazioni costanti nel corso degli anni e completato con una campagna di riprese cominciata a febbraio e ultimata qualche giorno fa. Il frutto è «La Domitiana, dove non c'è strada non c'è civiltà» (di Romano Montesarchio e Vincenzo Ammaliato, produzione Effetto Vertigo, regia di Romano Montesarchio, 2008).
Chi vuole conoscere la realtà domizia può vedere questo documentario: non c'è una voce narrante, non ci sono effetti speciali, il filo conduttore è, appunto, la strada con il suo mondo, il suo durissimo e complicatissimo mondo. C'è la strada vista dagli occhi di chi la frequenta, di chi la subisce, di chi la descrive. Occhi, soprattutto occhi che Montesarchio scruta, occhi impauriti, occhi arroganti, occhi dolenti di umanità che si sovrappongono, si guardano, si odiano. Il documentario - la cui «prima» è prevista il prossimo 20 dicembre al Cinepolis del Centro Commerciale Campania (ma alcuni spezzoni saranno trasmessi da «Un mondo a colori» di Rai1 nella seconda settimana di dicembre) - mostra lo sfascio della Domiziana, i luoghi che l'avrebbero dovuta trasformare e che invece sono stati trasformati: alberghi abbandonati, industrie scheletrite, interi complessi abusivi o case abbandonate: immagini che, mai in modo così completo e pulito, sono state riprese e mostrate con l'ansia di capire e di spiegare.
C'è anche il coraggio di chi in questi posti lavora: dal sindaco di Castelvolturno, Francesco Nuzzo (che, vale la pena ricordarlo, il giorno della rivolta degli immigrati è stato l'unico a scendere in strada per tentare di aprire un dialogo e fermare le devastazioni), ai volontari del Centro Fernandes, al personale del 118: anche per questi Montesarchio porta la camera sui volti, sulle espressioni. Le immagini, anche le più forti, sono belle: emerge chiara la ricerca del particolare che spiega il contesto, si vede la modernità del montaggio e la cura della colonna sonora che accompagna il documentario.
Con Vincenzo Ammaliato, giornalista che veste a tratti i panni di Virgilio, Romano Montescarchio ha realizzato un documentario di grande passione civile, raccontando drammi, ma soprattutto mostrando la dignità di quanti su quei 50 chilometri lavorano per fare qualcosa di diverso. Di migliore.


Nota: Gianni Molinari da "Il Mattino" del 23.11.2008